secondo la grazia del nostro grande
Dio, per adoperarci in ogni ambito, sia esso familiare che
ecclesiale o sociale, per il conseguimento del bene comune.
Le donne di Papua Nuova Guinea hanno individuato nelle loro differenze
etniche, culturali e religiose (si contano in P.N.G. 800 dialetti e tre
lingue ufficiali, in una popolazione di solo 5,8 milioni di abitanti) due
punti in comune: la croce ed una borsa, il bilum.
Il bilum, una borsa di rete intrecciata che usano in tutte le loro diverse
zone e di cui fanno un uso svariato e nello stesso tempo utilissimo.
L’altro punto in comune, la croce: la croce simbolo di sofferenza, di
dolore, che ha accolto il Cristo nel momento più tragico della sua
esistenza, la morte. Ma la croce è anche e soprattutto simbolo di
Resurrezione. E…… resurrezione è speranza, è vita, è darsi da fare per
elevarsi, per migliorare, per sognare, per raggiungere mete insperate. Dice
la scrittura: “Coloro che sperano nel Signore, acquistano nuove forze, si
alzano in volo come aquile, corrono e non si stancano, camminano e non si
affaticano” (Isaia 40, 30-31)
Noi cristiani, anche se di comunità e denominazioni diverse, dobbiamo far
leva sui nostri punti comuni, sui quali possiamo lavorare per essere
resurrezione, speranza e vita per noi stessi e per gli altri.
Il primo punto comune lo troviamo sicuramente anche noi nella croce, ma
altri punti d’incontro li possiamo trovare scavando nel nostro passato,
nella nostra storia, nelle nostre radici.
La memoria del passato ci è necessaria per guardare con attenzione al nostro
presente e al nostro futuro.
Per esempio c’è oggi, nel nostro paese, una palese intolleranza verso gli
extracomunitari, i quali, lasciato con sofferenza il proprio paese
d’origine, cercano asilo, lavoro nel nostro, con la speranza di trovare il
loro “posto al sole”, necessario alla vita, che gli è stata violentemente
negata nel loro paese. Scavare nel nostro passato, significa ricordare.
Ricordare che anche noi siamo stati degli emigranti !
Abbiamo dimenticato forse le nostre emigrazioni verso le fabbriche del nord,
della Germania, verso le miniere del Belgio? Quanti nostri compaesani sono
partiti con la famosa “valigia di cartone” per migliorare la propria
esistenza, per acquistare, anche loro, un posto al sole più dignitoso. E
quante emigrazioni verso l’America ! Quanti nostri antenati, con il loro
onesto lavoro, hanno contribuito a fare grandi gli Stati Uniti e nello
stesso tempo a migliorare la condizione economica del nostro Paese. Ricordo
la nonna materna, che nei primi anni del ‘900, appena sedicenne, da sola, ha
lasciato la sua terra (e non aveva neanche con sé la famosa valigia) ed è
partita per l’America. Si è imbarcata in un piroscafo traballante. Ha
attraversato l’Atlantico viaggiando per più di un mese. Ha sofferto
intensamente la traversata, ma è giunta alla meta. Ha lavorato con fatica ed
ha coronato il suo sogno di poter lavorare con dignità, senza soprusi da
parte dei padroni autoritari. È riuscita a farsi una numerosissima famiglia,
cui ha dato una dignità e soprattutto una grande apertura mentale.
Anche una delle mie figlie è una emigrata. Vive in Australia con la sua
famiglia. Sperava in un futuro migliore, ma la nostalgia del suo paese è
forte. La nonna è rientrata ed è morta poi nella sua Terra. Ma quanti sono
rimasti e sono morti nei paesi dove sono emigrati !
La nostalgia del proprio paese d’origine è comune a tutti gli emigrati.
Nei giorni scorsi ho partecipato ad un convegno dove ho ascoltato la
testimonianza
di alcuni “fratelli” africani che raccontavano la loro frustrazione per
quanto era
loro accaduto, per ciò che avevano subito nel loro paese, per il futuro
incerto che li
aspetta. Nella voce avevano tutti la stessa nostalgia, la stessa malinconia
per la
terra perduta, per i familiari lasciati. Erano angosciati per il loro
passato ma
anche per il loro incerto futuro. Sentono che non c’è più prospettiva di un
futuro
per loro nel nostro paese.
Infatti, il grido da ogni parte d’Italia è: tolleranza zero! Il governo li
considera
come “pacchi” da rimandare al mittente, non pensando alle conseguenze di
questo
rimpatrio. L’Italia ha paura; ha paura degli extracomunitari………. ha paura
degli
immigrati!
Gli italiani hanno dimenticato il loro passato!
Perché aver paura dei nostri simili, anche se appartenenti a razza e culture
diverse? Dio non ci ha fatti tutti uguali e con uguale dignità?
Gesù non vuole forse che si abbattino queste barriere di intolleranza e di
ipocrisia?
Mi chiedo che significato ha la “croce” di Cristo se ancora oggi ne
calpestiamo il
valore?
Possiamo fare qualcosa per smuovere le nostre coscienze e le altrui?
Le donne di Papua Nuova Guinea ci vengono ancora una volta in aiuto nella
scelta dei passi biblici per questa liturgia.
La scrittura in Esodo, cap. 1 e 2, riporta le storie di alcune donne che si
sono
adoperate, a dispetto di avverse circostanze, di salvaguardare la vita, la
vita di
tanti bambini ebrei e di uno in particolare Mosè, che è divenuto leader
della
liberazione dall’Egitto ed è figura del Cristo.
Donne come le levatrici ebree, Sifra e Pua, che hanno evitato con astuzia la
morte
di tanti bambini, contrastando l’ordine di faraone.
Donne come Miriam e la mamma di Mosè, che si sono ingegnate per salvare il
bambino dalle guardie di faraone.
Donne come la figlia dello stesso re e le sue ancelle, che hanno cresciuto
il piccolo
Mosè da privilegiato nel palazzo reale.
Donne di etnie diverse, ebree ed egiziane – ricche e povere, che si sono
adoperate
per la “formazione” di un “Salvatore”.
Donne che hanno messo a disposizione i loro doni, le loro ricchezze umane e
materiali per il conseguimento del progetto divino.
Anche noi, uomini e donne, siamo chiamati oggi, su invito delle donne di
Papua
Nuova Guinea, a mettere a disposizione i nostri carismi, le nostre
intelligenze, al
servizio del progetto divino di pace, di fratellanza, di giustizia.
Pina Giacalone Teresi |