Religione come desiderio di mettersi in relazione, fede come volontà
di abbandonarsi fiduciosamente. E poi i si che cambiano la storia,
le testimonianze di vita vissuta, gli esempi biblici e quelli di
solidarietà civile ancor prima che religiosa. O più semplicemente "una
tavola rotonda cui invitare amici ed amiche, come la definisce
Pina Giacalone Teresi, moglie, madre di tre figlie, insegnante,
rappresentante della Chiesa Apostolica Pentecostale ed
organizzatrice dell’incontro. Già perché parlare di convegno o
conferenza risulta inadeguato: "La donna e la fede" vuole essere "un
dialogo franco, uno scambio di idee libero e aperto e nessuno-
sottolinea Pina Teresi- deve sentirsi sconfitto".
Una
data simbolica quella del 7 marzo, una vigilia di festa della donna
scelta per testimoniare la dignità di un essere umano che stenta
talvolta ad essere riconosciuta. Nessuna volontà sessista e nessun
discorso di genere, solo un’occasione per ricordare che la donna è
anche capace di scelte coraggiose, di portare su di sé i fardelli
propri e altrui, sostenuta da una forza che può disarmare, perché
oltrepassa l’umana capacità di comprendere. La forza della fede.
Libertà, coraggio, dolore, amore, fede sono il collante di un
confronto che, a primo impatto, sembra cucito addosso alle due
giovani relatrici: Manuela Linares, di religione cattolica ed
Elisabetta Ribet, pastora valdese; ma quando anche il pubblico
spezza la catena della reticenza, il dibattito prende forma e si fa
strada l’idea che i grandi temi religiosi non siano altro che le
scelte di fronte alle quali la vita di ogni giorno ci pone. Chi ha
introdotto la discussione, chi l’ha continuata ed arricchita con
passi di Sacra Scrittura ed episodi di vita vera è "uguale" a chi,
tra i presenti, ha alzato la mano per prendere parola. Parole di
fratelli tra fratelli, distanze che si accorciano e storie che a
volte si incrociano, dove, se non è sempre possibile trovare un po’
di sé, si può attingere per riflettere sulla propria personale
storia. |
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"Più
volte con i fratelli pentecostali siamo stati insieme intorno al
Cristo risorto. Poi lo scorso anno a Roma tante Chiese cristiane si
sono raccolte e lì più che mai ho avvertito lo spirito ecumenico che
ci lega". Per Manuela Linares l’incontro tra religioni è fonte
di scambio e, quindi, di crescita. "I fratelli delle Chiese
separate - dice - mi comunicano la gioia della testimonianza
di Cristo. Non dobbiamo dimenticare che è proprio una donna, una
peccatrice, a dare l’annuncio della resurrezione e noi cattolici
dovremmo farci annunciatori della salvezza". |
Spesso
concentrati sulla sofferenza, che non di rado affrontano con esemplare
spirito di sopportazione, i cattolici, dunque, dimenticherebbero talvolta di
farsi portavoce di Cristo, di essere profeti di fede e di messaggi di
speranza, perché "dalle
ceneri si può rinascere, sulle macerie si può ricostruire".
Un sì che
edifica, un assenso nato dal coraggio e non per questo poco problematico, ma
tanto generoso, generatore di cambiamenti che si tramandano di generazione
in generazione. "Sono così le scelte delle donne di Israele. Con un sì -
commenta Manuela - hanno cambiato il corso degli eventi: dall'
"Eccomi!" di Maria, che a soli 16 anni accetta di portare in grembo il
figlio di Dio, al si di Sara, novantenne, moglie di Abramo, centenne, che
accetta di ricevere la gioia di diventare madre, sebbene al di fuori
dell’età biologica e ancora quello di Jochebed, che ripone Mosè in fasce in
una cesta e lascia che le acque del fiume lo trasportino via". Il grembo
di Maria, quello di Sara, il fiume di Jochebed rappresentano tutti le mani
grandi ed accoglienti di Dio. Le scelte delle donne di Israele simboleggiano
"la fede che ha la forza di rendere visibile allo spirito ciò che è
invisibile nella realtà. La fede che rende l’essere umano così sicuro
del futuro, come se questo fosse già".
Ricevuto il
dono di una simile forza, ci si abbandona alla stregua di un bimbo tra le
braccia di una mamma, oggi come un tempo. "Credo ci sia un filo rosso che
conduce tutta la nostra esistenza. Sono figlia di separati e sono diventata
mediatore familiare perché ritengo di potere aiutare i figli di separati.
Sono avvocato, anzi no…esercito la professione di avvocato…". A Manuela,
moglie e mamma di due bambini, brillano gli occhi di gioia e di commozione
insieme quando parla della sua famiglia e del suo cammino di fede: "Il
Signore ha operato in me con tanto sacrificio, fino a che mi fidassi
totalmente di lui; prima del matrimonio mi fu detto che non avrei potuto
mettere al mondo dei bambini. Sebbene dopo una gravidanza travagliata,
nacque il primo figlio, Yeshua. Dopo cinque anni, una bimba. Nonostante mi
avessero consigliato di abortire, Francesca è nata ed è una bimba
meravigliosa. Quale esempio migliore per i figli, se non quello di
una fede forte, di un amore incondizionato, della capacità di servire Dio,
anche quando questo porta di fronte ad un bivio?"
A Manuela trema la voce,
pensando a scelte difficili, supportate da una fede incondizionata e
sopportate grazie alla solidità di coppia e "alle preghiere, anche quelle
-ribadisce - di tutti i fratelli della Comunità di cui facciamo parte".
Resistere e credere che
qualcuno lassù ci sta vicino. Per Elisabetta Ribet, una giovane
donna minuta, tutta energia, il ministero della predicazione è un
modo per rispondere al suo Signore e alla sua Chiesa. "Mi sento
– dice - come una piccola pietrina che arriva in cima ad una
montagna, perché sento il peso dell’eredità che mi porto dietro". |
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La sua Chiesa, la Chiesa
Evangelica Valdese, è figlia di violente persecuzioni e delle sentenze che
il tribunale medievale dell’Inquisizione sapeva emettere, fino a ricorrere
ai pubblici roghi. "Le mie antenate erano considerate donnicciole
impudenti, sfacciate ed approfittatrici. Poi venivano prese ed arse vive. Ma
prima di morire trovavano ancora il coraggio di scrivere sui muri delle
carceri: "RESISTETE". Mi sento erede di queste donne, ma anche di altre più
vicine ai nostri giorni".
Elisabetta
ricorda poi l’ultima grande guerra, quando tedeschi e partigiani si
trovavano alla domenica riuniti per il culto, e talvolta si recavano insieme
in Chiesa. Un solo giorno a settimana, in un solo momento, lontani dall’odio
e dalla violenza e questo grazie alle buone parole dispensate dalle
predicatrici valdesi ai soldati tra le montagne del torinese.
Per lei la
condivisione della sofferenza è un fatto viscerale. Sorride, abbozza quasi
una smorfia di dolore e, toccandosi il ventre, dice: "Nella mia vita è
istintiva la solidarietà nei confronti dei "minimi", dei piccoli. Mi sento
sorella delle donne che lasciano il loro Paese per svolgere in Italia lavori
che noi disdegniamo di fare. Eppure nei loro occhi si coglie la dignità di
chi è sfruttato ma continua a credere che Dio è clemente e misericordioso e
a Lui ci si può aggrappare". Si sente sorella ed erede delle donne che
hanno studiato teologia e fanno servizio pastorale. "Non c’è scritto in
nessun posto sulla Bibbia, afferma con tono deciso, che le donne non
possano amministrare il culto o predicare il Vangelo".
Elisabetta
non dimentica nessuno: emigranti, sofferenti, omosessuali, violentati,
sfruttati. Di fronte a lei, vede solo delle persone che hanno bisogno di
essere accompagnate e non giudicate. Il suo motto è : "Patire con, il
giudizio è l’ultima cosa".
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A questo punto il
confronto con i presenti si anima: si dubita della pertinenza della
definizione data all’incontro; ci si chiede se sia corretto parlare
di "Donna e fede", se in fondo la fede possa essere ricondotta ad
una questione di genere, se sia giusto parlare di ruoli, ma c’è
spazio anche per temi più sociali, come la devianza giovanile, la
disgregazione dei nuclei familiari, l’educazione dei figli,
l’accanimento terapeutico e l’eutanasia. Le relatrici rispondono
"prestando fede" al loro vissuto, alle loro esperienze spirituali.
Cercano sempre di tenere ben distinta la sfera laica delle leggi
dello Stato, quanto mai necessaria per una democratica e sicura
convivenza civile, da quella religiosa, esclusivamente affidata al
buon cuore ed alla buona coscienza di ciascuno. Fioccano gli appelli
alla libertà da parte di Elisabetta: "Per me, che ben mi guardo
dal vederla come non curanza o libertinismo, significa possibilità
di operare delle scelte senza condizionamento alcuno. Mi
sento libera quando |
riconosco l’altro come
persona e non come categoria, quando so di potere essere serva umilissima di
tutti gli altri". E quelli di Manuela alla fede come "legame
profondo, come relazione in grado di far incontrare l’altro, dove non c’è né
uomo né donna, dove ci sono solo esseri umani uguali nella diversità". E
ancora, citando S. Paolo, dice: "Ama e fa’ ciò che vuoi". Dovremmo
far tesoro di ciò che l’apostolo ripeteva, che è un inno alla libertà e
all’amore".
Irene
Giacalone

Mercoledì 7 marzo 2007 si è tenuta, nei locali del Complesso
Monumentale San Pietro, patrocinata dal Comune di Marsala,
una tavola rotonda pubblica dal titolo "La donna e la Fede".
Alla tavola rotonda che ha visto una buona
partecipazione della cittadinanza, era presente il Vice
Sindaco Leo Giacalone e l'Assessore alle Politiche Culturali
dott.ssa Giuseppina Passalacqua. L'incontro organizzato dal
Dipartimento Culturale della Chiesa Apostolica Pentecostale
ha visto come relatrici Manuela Linares: avvocato/mediatore
familiare - Cattolica -
Marsala ed Elisabetta Ribet: pastora Chiesa Valdese -
Palermo. |
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